Nel vasto panorama del teatro dell’assurdo, Samuel Beckett si distingue per la sua capacità di distillare l’esistenza umana nelle sue forme più essenziali. “Atto Senza Parole”, breve pièce muta scritta nel 1956, è una delle sue opere più emblematiche, capace di comunicare l’angoscia, l’alienazione e l’ineluttabilità del destino umano senza bisogno di parole.

L’azione si svolge in uno spazio minimale e spoglio. Un uomo viene scaraventato su una scena deserta e, nonostante i suoi ripetuti tentativi di interagire con il mondo attorno a lui, si trova sempre più frustrato da un sistema invisibile che lo inganna e lo abbandona. Oggetti appaiono e scompaiono, promettendo una via d’uscita che si rivela ogni volta irraggiungibile. In questa condizione di lotta e rassegnazione, Beckett ci costringe a riflettere sulla condizione umana e sulla sua apparente assurdità.

L’assenza di dialoghi rende l’opera universale. La comunicazione avviene attraverso gesti, espressioni e interazioni con gli oggetti di scena. Il protagonista, ridotto alla sua corporeità, diventa simbolo di un’umanità che anela a un senso che non arriva mai. L’eco del teatro di Beckett risuona nelle moderne rappresentazioni della solitudine e dell’impotenza dell’individuo di fronte a forze fuori dal suo controllo.

Questa pièce, apparentemente semplice, nasconde una complessa riflessione filosofica. L’influenza dell’esistenzialismo e del nichilismo è evidente: l’uomo cerca di dare un senso alla sua presenza, ma ogni tentativo si scontra con l’insensatezza dell’universo. Il silenzio diventa così un grido più forte di qualsiasi parola.

“Atto Senza Parole” continua a essere rappresentato nei teatri di tutto il mondo, mantenendo intatta la sua forza espressiva. Beckett, con questa piccola grande opera, ci invita a interrogarci su noi stessi, sul nostro rapporto con il mondo e sul significato, se mai esista, della nostra esistenza.

Samuel Beckett nacque a Dublino il 13 aprile 1906. Dopo aver studiato al Trinity College, si trasferì a Parigi, dove entrò in contatto con autori come James Joyce. Durante la Seconda Guerra Mondiale, partecipò alla Resistenza francese e, dopo il conflitto, iniziò a scrivere opere teatrali che avrebbero rivoluzionato il panorama letterario del Novecento.

La sua fama mondiale arrivò con “Aspettando Godot” (1953), capolavoro del teatro dell’assurdo. Beckett esplorò nei suoi lavori temi come l’attesa, l’alienazione e il senso di vuoto esistenziale. Tra le sue opere più celebri si annoverano “Finale di partita” (1957), “Giorni felici” (1961) e “L’ultimo nastro di Krapp” (1958). Nel 1969 ricevette il Premio Nobel per la Letteratura. Morì a Parigi il 22 dicembre 1989, lasciando un’eredità artistica che continua a influenzare il teatro e la letteratura contemporanea.

Napoli – Antonio Iavazzo, attore, autore, regista e formatore, rappresenta una delle figure più poliedriche e influenti del panorama teatrale italiano. Nato a Napoli il 15 gennaio 1961, ha costruito una carriera all’insegna della sperimentazione e della pedagogia teatrale, affermandosi come punto di riferimento per la scena artistica e culturale.

Formatosi presso l’Accademia Drammatica del Teatro Bellini di Napoli, Iavazzo ha approfondito il Metodo Stanislavskij e le tecniche attoriali dei grandi maestri del Teatro Antropologico, tra cui Jerzy Grotowski, Peter Brook ed Eugenio Barba. Ha inoltre studiato Mimo Corporeo per cinque anni con il Maestro M. Monetta, affinando la sua arte attraverso la tecnica Decroux/Lecoq e partecipando a numerosi stage di perfezionamento.

Nel corso della sua carriera ha collaborato con alcune delle personalità più importanti del teatro italiano, tra cui Roberto De Simone, Antonio Casagrande, Nello Mascia, Giuliana Lojodice, Mariano Rigillo e Pippo Delbono. Il suo talento lo ha portato a lavorare non solo sul palcoscenico, ma anche sul grande e piccolo schermo, dove ha interpretato ruoli di rilievo, tra cui il capo della scientifica R. Alfano nella fiction televisiva di Rai 3 La Squadra.

Parallelamente alla carriera attoriale e registica, Iavazzo si è dedicato con passione alla formazione e alla pedagogia teatrale. Ha insegnato per quattro anni all’Università Popolare dello Spettacolo di Napoli e ha collaborato con il Professor F.C. Greco per il coordinamento delle attività del Centro Universitario Teatrale (C.U.T.) della Federico II. Inoltre, ha diretto il Laboratorio Teatrale Labor.inti Federiciani e il progetto L’Occhio Segreto, promosso dalla Seconda Università degli Studi di Napoli.

Antonio Iavazzo è anche il fondatore e direttore artistico di numerose realtà culturali e teatrali, tra cui l’Associazione Teatrale Tacito Dissenso e l’Associazione Culturale Il Colibrì. Il suo impegno nella promozione del teatro nelle scuole si è concretizzato nella creazione della Rassegna di Teatro-Scuola Pulci nella Mente, attiva dal 1998 a Sant’Arpino (CE), e nell’organizzazione del Festival Nazionale del Teatro Universitario Appello Straordinario nel 2006.

Il suo contributo al teatro non si limita alla messa in scena di spettacoli, ma si estende alla creazione di spazi di confronto e crescita per giovani talenti e appassionati. La sua scuola di teatro e recitazione, Il Pendolo, è oggi un punto di riferimento per chi desidera avvicinarsi all’arte scenica con professionalità e dedizione.

Con un percorso artistico e didattico che abbraccia più di quattro decenni, Antonio Iavazzo continua a essere una figura di spicco nel mondo teatrale, portando avanti con entusiasmo la sua missione di ricerca, sperimentazione e divulgazione dell’arte scenica. Il suo lavoro rappresenta un esempio di come il teatro possa essere non solo spettacolo, ma anche strumento di crescita culturale e sociale.

Antonio Iavazzo ama Beckett e gli autori che rimandano ad un rebus, a un’inquietudine, un genere che porta ad interrogarci, non un teatro di fruibilità immediata. E’ proprio così che è nata la sua idea di lavorare ad un’opera di Beckett, quale “Atto senza parole”.

Beckett rimanda a degli interrogativi, fondamentale per Antonio è lo scambio con il pubblico nel corso del dibattito che tiene usualmente nel post-spettacolo e nel corso del quale gli spettatori fanno domande agli attori. Spesso i pensieri del pubblico sono in contrasto con ciò che lui pensa durante la lavorazione per la messa in scena.

Antonio Iavazzo è attore, ma da tanto tempo preferisce disegnare su tela ed è già difficile questo. Sarebbe complicatissimo svolgere contemporaneamente il lavoro attoriale e quello registico. Antonio pur essendo nato come attore, attualmente preferisce la regia…

Antonio Iavazzo è con queste parole che presenta al pubblico nel post-spettacolo il suo “Atto senza parole”: “Beckett apre un mondo a qualsiasi interpretazione, certamente fatta con vigore. Una visione può essere certamente quella della quotidianità e l’interazione. Abbiamo subito pedissequamente ogni azione, poteva andare avanti all’infinito. Usciamo dal sacco, rientriamo. Come scrisse lo stesso Bechett: <Usciamo dalle quinte della nostra vita>. Sicuramente c’è la quotidianità, qualcuno ci vede disperazione. Io non vedo disperazione, vedo pura presenza. Siamo noi con le nostre interazioni, vestendoci e svestendoci delle nostre azioni”.

“Noi non ci rendiamo conto, non sarà l’orologio, ma qualche altra cosa, però ci interroghiamo su cosa si stia facendo. Apparentemente dove va con quest’orologio, che cosa fa? Ha un appuntamento con il sacco. Il sacco non è buttato, ma è la propria dimensione e bisogna tornarci con puntualità, mettere apposto gli abiti. Questa visione mi affascina molto, possiamo vederci tante cose di noi. Beckett è uno specchio, ci riflette”.

Dal pubblico: Crea anche molta angoscia, ci ho visto anche problematiche come la depressione, rappresentata dalla ripetizioni di determinate azioni o dimenticare certe situazioni, come il fatto del vestirsi. Ho provato molta difficoltà ad assistere a questo tipo di performance. Lascia molto pensare anche sulle patologie che vivi quotidianamente tu o qualcuno che ti sta vicino.

Secondo Antonio Iavazzo una visione del genere è interessante, ma il loro obiettivo è stato quello di svuotare i personaggi da qualsiasi tipo di psicologia. Il loro rapporto è taoista, zen con le cose. Si nasce senza investimento di nessuna natura emozionale.

Alla fine è tutto un gioco, le scelte musicali indicano una sorta di vestizione. Si entra in una dimensione dell’avvenire, della notte, del sogno.

Un’altra interpretazione che si potrebbe dare secondo Iavazzo è che l’uno potrebbe essere visto come il sogno dell’altro. Il sogno va nel sacco e l’altro si sveglia. Questa è un’interpretazione molto affascinante. Difatti i due personaggi sono un po’ opposti, uno è molto mistico e l’altro va più verso la tensione e gli scatti.

E’ un’invocazione, un grido soffocato, probabilmente è un appello.

Gianni Arciprete: “Quando Antonio ci ha proposto di fare questo lavoro, ci ha messi un po’ in tilt, perché noi siamo abituati a parlare e dialogare sul palcoscenico, si trattava quindi di un tipo di lavoro diverso che non avevamo mai fatto. Mi ha aiutato dove lavoro io, mi hanno aiutato i ragazzi con cui mi rapporto per lavoro, perché hanno un tipo di dimensione zen che io ho molto osservato”.

La tendenza dell’attore è emozionale, mentale. Antonio Iavazzo ha affermato che gli attori alle volte hanno messo un’intenzione che lui non voleva assolutamente, il personaggio doveva essere vuoto e questo è tipicamente zen, taoista.

Si è creato un insieme di assenza/presenza in cui ognuno vede ciò che sente. Dato che il cervello proietta e percepisce un mondo duale, ognuno ci vede la vita, la morte, due aspetti della stessa cosa, l’alba e il tramonto, l’uscita e l’entrata. Noi proiettiamo il nostro modo di essere duali e percepire il mondo.

Sembrano due personaggi provenienti anche da due epoche diverse, il personaggio Gianni che nasce da un’epoca più antica in cui devi imparare a trovare delle soluzioni, capire come funzionano e adattarsi un poco. Il personaggio Gennaro nasce già in un’epoca più moderna, in cui ognuno ha già le proprie sovrastruttura, ha già i suoi strumenti e sa come utilizzarli. L’elemento comune, quando arrivano alla fine della propria vita e ognuno sa come organizzare questa sorta di abbandono.

Antonio Iavazzo vede nell’opera un’evolversi della vita, andare verso il mondo del sociale, una progressione che va da sinistra verso destra…

Gianni Arciprete, quando Antonio gli fece questa proposta la vide come una sfida, ma Beckett non avvalendosi di parole ha messo in crisi sia lui che Gennaro. Non potendosi avvalere delle parole il lavoro diventa molto duro e complicato, è tutto sottile e tenuto in tensione continua.

Gennaro Marino ha visto l’immedesimarsi nell’opera di Beckett come un continuo equilibrio, la cosa più difficile è stata non diventare quasi nessuno, perché siamo tutti personaggi nella vita. Rimanere su quel filo e camminarci, ha fatto sentire Gennaro sempre in bilico. Paradossalmente affidarsi unicamente al gesto è molto più complicato dell’avvalersi della parola.

La cosa più complicata, anche per Antonio Iavazzo è stata quella di essere neutri con la propria maschera, con il proprio volto.

Per Gianni Arciprete è stato un messaggio alla vita, senza sofferenza.

Secondo Gennaro ognuno ci ha visto qualcosa di diverso e la quotidianità è proprio questa, caratterizzata da personaggi con i propri tic, ma senza una psicologia.

Simbolo della puntualità in un’anima che non deve andare da nessuna parte, l’orologio per tenersi in vita e darsi degli appuntamenti ideali. Io ho un appuntamento, ma… “Per chi? Per dove? Per quando? Arriva o non arriva?”